2 Corinzi 12:9b-10: La soddisfazione di Paolo nella sofferenza
John Piper dice: “Dio è più glorificato in voi quando siete più soddisfatti in lui”.
A mio avviso, questo non deve avvenire solo quando tutto va bene, ma anche quando soffriamo!
In 1 Corinzi 12, ci troviamo di fronte a quella che è stato definito “il discorso del folle”.
In 1 Corinzi 12 Paolo vuole riportare la chiesa di Corinto, influenzata negativamente dai falsi apostoli, a vedere nella loro giusta prospettiva spirituale la natura della potenza di Cristo in lui.
A riguardo, David Garland scrive: “I falsi apostoli impediscono ai Corinzi di vedere come la potenza di Cristo è all'opera in lui e li allontanano dalla croce di Cristo. L'obiettivo di Paolo non è semplicemente quello di difendersi, ma di aiutarli a 'vedere le cose correttamente' attraverso la giusta lente spirituale”.
Dalla seconda parte del v.9 vediamo la logica conclusione di Paolo su ciò che aveva detto prima, il senso parafrasato è: “Visto che la grazia del Signore è sufficiente per affrontare e sopportare la sofferenza cronica e visto che la potenza del Signore si dimostra perfetta nella debolezza, allora io mi vanto e mi compiaccio delle sofferenze di vario genere”.
Le parole del Signore rivolte a Paolo, sono universalmente applicabili a tutti i cristiani e non invitano però alla rassegnazione, ma a continuare a servirlo con la Sua potenza sapendo che si dimostra perfetta nella nostra debolezza!
Sapendo che la potenza del Signore è su di noi quando siamo deboli allora siamo forti!
Come Gesù che affrontò la croce con ferventi preghiere (Matteo 26:36-46), così Paolo accettò la sofferenza come volontà del Signore sottomettendosi a essa e non pregherà più per la liberazione della sua sofferenza cronica, ha imparato a conviverci, e come indicato dal verbo “ho pregato” (parekalesa - aoristo attivo indicativo) del v.8 suggerisce che nel presente non pregava più per essere liberato.
Paolo allora c’insegna che arrivano momenti nella nostra vita in cui dobbiamo imparare ad accettare ciò che è inevitabile, ciò che il Signore ci fa capire che non cambierà, e nello stesso tempo, cercare di capire che cosa ci vuole insegnare attraverso la sofferenza, che per Paolo era rimanere umile (2 Corinzi 12:7), e imparare a dipendere dalla grazia del Signore (2 Corinzi 12:8-9).
Paolo in 1 Corinzi 12:7-10 c’insegna che nella sofferenza potremmo scoprire che ci sbagliamo su ciò che pensiamo sia meglio per noi e per l'opera del Signore, allora arrendiamoci a Lui con fede lasciando che la Sua volontà faccia il Suo corso anche se è diversa da quello che vogliamo noi!
Dio non esaudisce sempre le nostre preghiere perché ha in serbo per noi una benedizione più grande!
Dalla seconda parte del v.9 al v.10 vediamo tre aspetti della reazione di Paolo che ci parlano della sua soddisfazione nella sofferenza.
Prima di tutto vediamo:
I LA PRONTEZZA DI PAOLO (v.9)
Paolo non perse tempo dopo che il Signore gli disse che la Sua potenza si dimostra perfetta nella debolezza.
Nel v.9 leggiamo: “Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me”.
Come detto prima, Paolo arriva alla logica conclusione (perciò - oun) che se la potenza del Signore si dimostra perfetta nella debolezza (v.9), allora molto volentieri si vanterà delle sue debolezze affinché la potenza di Cristo riposi su di lui.
Vediamo prima di tutto:
A) La particolarità
“Molto volentieri” (v.9).
La parola “molto volentieri” (hēdista -avverbio superlativo di modo) nel greco, la troviamo qui e al v.15, descrive in dettaglio una qualità, il grado della sua disponibilità, la gioia, il buon grado, la voglia, nel vantarsi delle sue debolezze.
Paolo anteponeva la volontà e l’opera di Dio prima del Suo benessere fisico!
E lo faceva con ardente desiderio!
Giovanni Calvino commentava così: “Aggiunge ‘molto volentieri’, per mostrare che è influenzato da un desiderio così ardente della grazia di Cristo, che non rifiuta nulla per ottenerla. Vediamo infatti che molti si sottomettono a Dio, come se temessero di incorrere in un sacrilegio nel desiderare la sua gloria, ma, nello stesso tempo non senza riluttanza, o almeno meno allegramente di quanto non sarebbe opportuno”.
Effettivamente molti si sottomettono al Signore perché devono farlo!
In queste parole di Paolo vediamo invece, la gioia nel farlo! Non era un peso per lui!
La gioia per il Signore è una caratteristica dei cristiani spirituali anche se la vita a volte ci può sembrare amara e crudele! (cfr. per esempio Salmo 16:11; Galati 5:22; Filippesi 4;4; Giacomo 1:2-4),
Ma attenzione!
Questo passo non incoraggia ad autoinfliggersi sofferenze corporali per essere più spirituali, o per accumulare il perdono dei peccati, o per avere l’approvazione di Dio!
Philip Edgcumbe Hughes ha messo in guardia contro l'uso improprio delle parole dell'apostolo nel seguire "gli errori di una teologia ascetica successiva, che incoraggiava gli uomini a pensare che per mezzo di sofferenze e indegnità corporali autoinflitte, avrebbero potuto accumulare il perdono dei peccati post-battesimali e giustificare i meriti davanti a Dio. Quella era una teologia dell'insicurezza senza gioia; mentre la teologia di Paolo è una teologia di gioia senza nuvole e di sicurezza inespugnabile..."
Paolo sta parlando di una sofferenza data dal Signore che ha usato l’angelo di Satana e da cui Paolo voleva esserne liberato! (2 Corinzi 12:7-8).
Vediamo allora:
B) La preferenza
La preferenza di Paolo è che si vanterà delle sue debolezze!
“Mi vanterò piuttosto delle mie debolezze” (v.9).
Anche in 2 Corinzi 11:30 e 12:5 Paolo aveva detto che si sarebbe vantato delle sue debolezze.
“Vanterò” (kauchēsomai – futuro medio indicativo) indica mettersi in mostra verbalmente, essere orgogliosi di qualcosa (cfr. per esempio Romani 2:17; 5:2; 1 Corinzi 1:29; 13:3; 2 Corinzi 5:12; 12:1; Galati 6:13; Efesini 2:9; Filippesi 3:3; Giacomo 1:9; 4:16) in questo caso delle proprie debolezze.
Di solito ci si vanta non certo di una debolezza, ma di un qualche pregio, o dei successi come fecero per esempio il re Babilonese Nabucodonosor che si vantò della grande Babilonia che aveva costruita con la forza della sua potenza e per la gloria della sua maestà (Daniele 4:30), o il Fariseo nel tempio che si vantava delle sue opere innalzandosi su gli altri uomini (Luca 18:9), ma non Paolo!
“Piuttosto” (mállon - avverbio) può indicare un contrasto enfatico, un'alternativa (cfr. per esempio Marco 15:11; 1 Corinzi 5:2; Galati 4:9).
Paolo preferisce vantarsi delle sue debolezze piuttosto che per le eccellenze delle rivelazioni spirituali (2 Corinzi 12:7).
"Piuttosto" che vantarsi delle sue eccellenti rivelazioni spirituali, Paolo si vanterà molto volentieri delle sue debolezze.
Oppure Paolo se sta facendo un confronto enfatico, si vanterebbe delle sue afflizioni piuttosto che lamentarsene, o pregare per la loro rimozione (cfr. 2 Corinzi 12:8), o vantarsi di qualsiasi altra cosa come le rivelazioni eccellenti.
“Debolezze” (astheneias) è al plurale, e non più singolare come gli aveva detto il Signore: ”La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza” (v.9), che non indica una debolezza morale, o una semplice debolezza, ma l’astenia, indica una forte mancanza di energia fisica e mentale dovuta a una malattia.
Questo mostra come Paolo credesse veramente alla parola del Signore e si fidasse di Lui, tanto da fare un’affermazione di preferenza così importante che specifica non solo una debolezza, ma le debolezze!
I falsi apostoli si vantavano in quello che facevano, delle loro credenziali e della loro retorica (2 Corinzi 11), Paolo lo poteva fare di più di loro (2 Corinzi 11:23; 12:6), ma si vantava nelle sue debolezze, ne conosceva il valore, infatti la potenza di Cristo si dimostrava perfettamente in lui in queste, e dicendo così l’apostolo dava gloria al Signore riconoscendogli che quello che era e faceva era per grazia del Signore! (cfr. per esempio 1 Corinzi 15:10; 2 Corinzi 3:5).
In terzo luogo vediamo:
C) Il proposito
Sempre nel v.9 leggiamo:“Affinché la potenza di Cristo riposi su di me”.
“Affinché” (hina – congiunzione) indica lo scopo (cfr. per esempio Matteo 9:6; Marco 6:12; Luca 21:36; Efesini 5:33).
Principalmente è lo scopo, il proposito del Signore come indicato dalla frase del Signore stesso sempre nel v.9 che diventa lo scopo anche di Paolo!
Paolo si allinea con la volontà del Signore una volta che l’ha saputa!
Paolo si vanta delle sue debolezze, ma questo non significa che goda delle debolezze in quanto tali; ciò di cui si compiace è la potenza di Cristo che riposa su di lui in queste debolezze.
Lo scopo di vantarsi nelle sue debolezze è che la potenza di Cristo, quella potenza che lo aiutava ad affrontare le circostanze più dure e gli permetteva di servirlo in modo efficace, riposasse su di lui.
Paolo era consapevole del bisogno della presenza di Gesù e quindi dell’importanza fondamentale di dipendere da Lui sia per vivere la vita cristiana e sia per servilo potentemente!
Henrietta Mears, che è stata usata potentemente attraverso il suo discepolato e i suoi scritti, ha sofferto fin dall'infanzia di un'estrema miopia e di debolezza e irritazione generale degli occhi. E lei, come Paolo, pregava per la guarigione, ma inutilmente.
Nella sua maturità affermava va spesso: "Credo che la mia più grande risorsa spirituale in tutta la mia vita sia stata la mia vista debole, perché mi ha tenuta assolutamente dipendente da Dio".
Questo è lo scopo di Dio: dipendere da Lui! Non solo per Paolo, ma anche per tutti i cristiani!
David Guzik riferendosi a quei cristiani che pensano di cavarsela da soli scrive: “Molti di noi pensano che la vera maturità cristiana sia quando arriviamo a un punto in cui siamo in qualche modo ‘indipendenti’ da Dio. L'idea è che siamo così bravi da non aver bisogno di affidarci a Dio giorno per giorno, momento per momento. Questa non è affatto la maturità cristiana. Dio ha deliberatamente inserito nella vita di Paolo delle circostanze debilitanti, affinché egli fosse in costante e totale dipendenza dalla grazia e dalla forza di Dio”.
Non c'è nulla che ostacoli di più l'opera di Dio del cristiano orgoglioso che pensa di farcela da solo!
Alexander Maclaren, anche se si rivolgeva ai predicatori, ma lo possiamo applicare a tutti, diceva “I ministri del Vangelo, in particolare, dovrebbero bandire ogni pensiero sulla propria intelligenza, capacità intellettuale, cultura, sufficienza per il loro lavoro, e imparare che solo quando sono svuotati possono essere riempiti, e solo quando sanno di essere nulla sono pronti perché Dio operi attraverso di loro".
Dicendo “affinché la potenza di Cristo riposi su di me” Paolo suggerisce che il vantarsi della propria debolezza è il requisito preliminare per ricevere la potenza di Cristo.
Quando si vanta delle sue debolezze, allora la potenza di Cristo dimorerà in lui.
La potenza di Cristo si manifesta quando ci riconosciamo deboli e bisognosi di Cristo!
Murray Harris scrive: “La Sua forza capacitante non può operare senza una precedente confessione di debolezza e di bisogno. Se si rivendica l'autosufficienza, il suo potere non sarà né ricercato né sperimentato. Ma se si riconosce la debolezza, il suo potere sarà cercato e concesso. Allora opererà contemporaneamente alla debolezza e troverà una portata senza ostacoli in presenza di quella debolezza”.
Ma attenzione, come dice John MacArthur: “La debolezza di Paolo non era autoindotta o artificiale; non è stato un gioco di autostima psicologica superficiale che ha fatto con se stesso”.
Era un dato di fatto di fatto che andava riconosciuto!
Forse, allora, Paolo intendeva dire che la potenza di Cristo ha bisogno di un costante rinnovamento, e che la confessione della propria fragilità serve a far sì che ciò avvenga.
Paolo è soddisfatto delle sue sofferenze in modo che la potenza di Cristo dimorasse su di lui.
Dalla parola greca “potenza” (dunamis) proviene la parola “dinamite”.
La “potenza” di Cristo (Christou - genitivo), cioè quella che apparteneva, o proveniva da Cristo, che riposava su Paolo, era la presenza costante dello Spirito Santo (cfr. per esempio Atti 1:8; 19:11; Romani 15:13; 1 Tessalonicesi 1:5), che gli forniva la capacità di vivere la vita e di adempiere efficacemente l’opera che Dio lo aveva chiamato a fare.
Così la potenza di Cristo, non era un possesso, ma quella potenza che era su Paolo, cioè di cui Paolo ne faceva esperienza nella sua debolezza!
È in questo modo, come commenta Tannehill: "La continua debolezza è necessaria affinché l'uomo non possa confondere il potere di Dio con il proprio potere e perdere il potere di Dio tentando di fare affidamento su se stesso".
E questo non è altro che essere umili.
Il principio che la potenza di Dio riposa sugli umili, si trova anche nell'Antico Testamento (cfr. per esempio Isaia 57:15).
Abraamo confessa di essere polvere e cenere (Genesi 18:27).
Mosè rispose alla chiamata di Dio di far uscire Israele dall’Egitto in questo modo: "Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall'Egitto i figli d’Israele?" (Esodo 3:11).
Gedeone rispose alla chiamata dell’angelo del Signore di liberare Israele dai Madianiti in questo modo: "Ah, signore mio, con che salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse, e io sono il più piccolo nella casa di mio padre" (Giudici 6:15).
È interessante anche la parola greca per “riposi”.
“Riposi” (episkēnōsē - aoristo attivo congiuntivo) è “fissare una tenda”, quindi “entrare o risiedere in una tenda”, "prendere residenza in una tenda o in un'abitazione", da qui “abitare”, “dimorare”, “alloggiare”.
L'uso delle tende era comune in Israele: Abramo (Genesi 12:8), Ietro (Esodo 18:7), Core, Datan e Abiram, (Numeri 16:26–27) e Acan (Giosuè 7:21 ss.) abitavano nelle tende.
Così anche i nomadi (Genesi 4:20), i pastori (Giudici 6:5) e i soldati (2 Re 7:7–8) vivevano nelle tende.
Ma in una tenda, il tabernacolo, era il luogo in cui Dio dimorava tra gli Israeliti, un santuario trasportabile dove incontrava il Suo popolo (Esodo 25:8–9; 29:42-46; 40:34–38), dove incontrava e parlava con Mosè (Esodo 33:11).
Pertanto secondo alcuni studiosi, Paolo usa il vocabolario usato per il tabernacolo dell'antico patto in cui Dio piantò la sua tenda per dimorare in mezzo al suo popolo.
Paolo impiega così un'immagine della gloria della presenza (shekinah – cfr. per esempio Esodo 40:34-38) di Dio con una nuvola nel tabernacolo nell’Antico Patto.
Quindi, il verbo “riposi” è la manifestazione della gloria divina che non solo Paolo sentiva dentro di sé, ma che in un certo senso era percepibile anche agli altri come lo era con una nuvola tra il Suo popolo nell’Antico Patto sia nel tabernacolo che nel primo tempio (Esodo 40:34-38; 1 Re 8:10; 2 Cronache 7:2) che in Paolo poteva essere la potenza visibile del Signore attraverso i miracoli (cfr. per esempio Atti 19:11; Romani 15:18-19; 2 Corinzi 12:12).
La potenza del Signore, che non può essere separata dalla Sua gloria (cfr. per esempio Numeri 14:22; Salmo 24:8; Giovanni 11:39-40; Romani 6:4), discende e dimora nel corpo debole, sofferente di Paolo.
“L'Apostolo sembra avere nella mente l'immagine della potenza di Cristo che discende su di lui e prende dimora nel fragile tabernacolo del suo corpo nel corso del suo pellegrinaggio terreno” (Philip Edgcumbe Hughes)
Così “riposi su di me” parla dell'intima presenza del Signore nella vita di Paolo, questo era il suo desiderio e scopo nel vantarsi nelle sue debolezze.
Paolo era convinto che né la spina né le prove di alcun tipo lo faranno cessare nel suo servizio a Dio, con la potenza di Cristo su di lui!
In secondo luogo vediamo:
II IL PIACERE DI PAOLO (v.10)
Nel v.10 leggiamo: “Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo”.
"Che potere c'è in un dolore accettato", scriveva Madame Guyon (1648 – 1717).
Effettivamente è così! Un dolore non accettato è un dolore più forte da gestire!
Nel v.10 vediamo la logica conclusione di Paolo della lezione spirituale che ha imparato dal Signore: “Sapendo che la potenza di Cristo riposa su di me quando sono debole, allora mi compiaccio nelle debolezze perché quando sono debole sono forte”.
“Mi compiaccio” (eudokō – presente attivo indicativo) indica che ogni giorno per Paolo era una realtà compiacersi nella sofferenza.
“Compiacere” (eudokéō) è provare un alto grado di piacere, significa dilettarsi, essere molto soddisfatto di qualcosa, quindi approvare, accettare volentieri, come anche essere contento come il Dio Padre lo era di Gesù (cfr. per esempio Matteo 3:17; 17:5; vedi anche 1 Corinzi 1:21; Galati 1:15-16), o anche preferire come la preferenza di partire dal corpo e di andare ad abitare con il Signore (cfr. per esempio 2 Corinzi 5:8).
Ma questo atteggiamento è una rarità, quindi vediamo:
A) La rarità del compiacimento (v.10)
Nel v.10 leggiamo:”Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie”.
Quanti hanno un alto grado di piacere, soddisfazione, contentezza nella sofferenza?
Quanti l’accettano volentieri, o la preferiscono al benessere?
“Di solito le persone si preoccupano più del loro benessere fisico che di quello spirituale. Sacrificare la propria salute fisica per quella spirituale è più di quanto la maggior parte delle persone possa sopportare” scrive John Butler.
Di solito ci rallegriamo quando tutto va bene, e non quando soffriamo!
Stiamo parlando di una rarità che hanno solo i cristiani spirituali!
Per fare un’affermazione del genere con sincerità si deve essere persone molto spirituali!
Certo non è nella sofferenza in sé, ma quello che sperimentiamo nella sofferenza: la potenza del Signore!
“La sofferenza non è lodata per se stessa, ma perché porta con sé questa promessa della potenza di Cristo” (Scott J. Hafemann).
Vediamo le circostanze, o sfere (in - en- dativo di sfera) delle sofferenze dove Paolo si compiace.
Come già detto nel v.9 “debolezze” (astheneias) indica una forte mancanza di energia fisica e mentale dovuta a una malattia.
“Ingiurie” (hybresin) si riferisce agli atti, o a dichiarazioni di arroganza subiti offensivamente, irrispettosamente in modo diretto, o audace.
Potrebbero essere comprese anche calunnie e maldicenze.
“Necessità” (anankais) si riferisce a stati penosi, difficoltà, distrette, afflizioni difficili, o forti, soprattutto quello che nasce da questioni di necessità, quindi la fame, la sete, la mancanza di alloggio, di vestiti e così via.
“Persecuzioni” (diōgmois) sono attacchi verbali, o fisici, abusi, o lesioni.
È la caccia sistematica agli aderenti a una particolare religione per infliggere loro dolore, o morte, soprattutto per distruggere la religione facendo male all'aderente, o costringendolo a rinunciare al proprio credo.
“Angustie” (stenochōriais) sono situazioni di tensione, perplessità, turbamenti, momenti di ansia, problemi e difficoltà ineludibili.
L’immagine è essere in uno spazio stretto senza apparente via di fuga, non diversamente da un esercito sotto attacco in un passaggio lungo e stretto senza spazio di manovra, o ritirata.
Si riferisce a una condizione particolarmente opprimente e costrittiva.
Ora con questo elenco Paolo vuole evidenziare che in qualsiasi situazione di sofferenza di qualsiasi tipo, non cade nel vittimismo, non si piange addosso, non si lamenta con Dio, ma si compiace!
In secondo luogo vediamo:
B) La ragione del compiacimento (v.10)
Sempre al v.10 è scritto: “Per amor di Cristo”.
Nella frase greca è “per Cristo”.
Paolo si compiace di soffrire per Cristo, o a causa di Cristo, si compiace o accetta volentieri la qualsiasi cosa accada perché lo fa per Cristo, è consacrato a Cristo e il motivo è per la Sua gloria! (cfr. per esempio Isaia 43:7; 1 Corinzi 10:31).
“Per Cristo” (hyper - genitivo) può essere a vantaggio (cfr. per esempio Giovanni 11:50; Galati 1:4; Colossesi 1:7; 2 Timoteo 2:1), o qualcosa fatto nell'interesse di Cristo, o causa, o ragione per cui si compiace nella sofferenza (cfr. per esempio Romani 15:9; 1 Corinzi 10:30).
George Guthrie a riguardo commenta così: “In 2 Corinzi uno degli aspetti chiave del ministero autentico riguarda il motivo. Paolo non esercita il ministero per profitto personale (ad esempio, 2:17), ma piuttosto per obbedienza e obbligo verso Cristo e per la sua gloria. Paolo cerca di far avanzare il regno di Cristo e di Dio, non il suo regno”.
Se Paolo aveva questo atteggiamento raro, è perché aveva rinunciato a se stesso e amava Cristo più di se stesso, lo faceva per la gloria di Cristo!
Questo c’insegna che nella sofferenza dobbiamo continuare a essere consacrati al Signore per la Sua gloria!
Infine consideriamo:
III LA PROSPETTIVA DI PAOLO (v.10)
Sempre nel v.10 leggiamo:”Perché quando sono debole, allora sono forte”.
Questo uno dei diversi motti di Paolo.
Prima di tutto vediamo:
A) La spiegazione (v.10)
Paolo dice: “Perché”.
Quindi l’apostolo sta spiegando la ragione per cui si compiace nella sofferenza.
Paolo imparò per esperienza e rivelazione di Gesù che la sofferenza portava le benedizioni di Dio!
Se Dio non lo avesse provato, Paolo non avrebbe mai capito così chiaramente la sua debolezza e il bisogno di dipendere dalla grazia e potenza di Cristo!
“Paolo arrivò a sperimentare la presenza e la potenza di Cristo in un modo nuovo. In una dura scuola di disciplina e sofferenza Paolo imparò lezioni di fiducia e dipendenza dalla forza di Dio, che presumibilmente non avrebbe mai potuto conoscere senza la presenza limitante di qualche debolezza” (Ralph P. Martyn; Carl N.Toney) .
Secondariamente vediamo:
B) La stranezza (v.10)
“Quando sono debole, allora sono forte” dice Paolo sempre al v.10.
Questa frase paradossale ed enfatica, umanamente parlando, può sembrare una cosa strana: “Com’è possibile che quando siamo deboli fisicamente per una sofferenza come una malattia, siamo forti?”
Con Cristo, la peggiore prova che un cristiano, o una cristiana può avere, può essere la sua cosa migliore in questo mondo!
Più siamo provati, è più per la grazia del Signore, sentiamo il bisogno della Sua presenza e del Suo aiuto, e più vediamo la Sua presenza efficace nella nostra vita!
Paolo si compiaceva nella sofferenza, non perché fosse un masochista, ma perché in questa debolezza era forte, ma era la potenza del Signore come aveva detto nel v.9!
La potenza dunque, non era sua, né diventava sua! Era di Gesù Cristo che fluiva nell’apostolo!
“La matematica spirituale non è mai: ‘La mia debolezza più la sua forza è uguale alla mia potenza’. Piuttosto, è: ‘La mia debolezza più la sua forza è uguale alla sua potenza’" (Kent Hughes).
La potenza non è una capacità, o un possesso umano naturale, ma un dono della grazia divina! (cfr. per esempio 1 Corinzi 15:10; 2 Corinzi 3:5; 12:9).
“Ogni volta che i servitori di Dio si umiliano e riconoscono la loro debolezza, allora la potenza di Cristo può fluire attraverso di loro” (Ralph Martyn).
Quando i credenti si umiliano e riconoscono sinceramente la loro debolezza, il potere di Cristo fluisce attraverso di loro.
Charles Hodge diceva: “Quando siamo veramente deboli in noi stessi, e coscienti di questa debolezza, siamo nello stato adatto alla manifestazione della potenza di Dio. Quando siamo svuotati di noi stessi, siamo pieni di Dio. Coloro che pensano di poter cambiare il proprio cuore, espiare i propri peccati, sottomettere il potere del male nella propria anima, o in quella degli altri, che si sentono in grado di sostenersi nell'afflizione, Dio lo lascia alle proprie risorse. Ma quando sentono e riconoscono la loro debolezza, egli comunica loro la forza divina”.
Il fatto che la potenza di Cristo si manifesti nella debolezza, dovrebbe dare fiducia e coraggio anche a quei cristiani che pensano di non essere all’altezza di servire il Signore perché non vedono in loro grandi capacità!
Neil Wilson c’incoraggia con queste parole: “È nelle nostre debolezze che sperimentiamo più chiaramente la forza di Dio. Anche se Dio non eliminò l’afflizione fisica di Paolo, promise di dimostrare in lui la sua potenza. Il fatto che la potenza di Dio si manifesti nelle persone deboli dovrebbe darci coraggio. Anche se riconosciamo i nostri limiti, non dovremmo congratularci con noi stessi e fermarci su questo. Dovremmo invece rivolgerci a Dio per cercare percorsi efficaci. Dobbiamo fare affidamento su Dio per la nostra efficacia piuttosto che semplicemente sulla nostra energia, impegno o talento. La nostra debolezza non solo aiuta a sviluppare il carattere cristiano; approfondisce anche la nostra adorazione, perché ammettendo la nostra debolezza affermiamo la forza di Dio”.
E certamente deve far riflettere anche coloro che pensano di farcela da soli.
Possiamo fare a meno della sensazione della potenza di Cristo, esserne più o meni consapevoli, ma non possiamo fare a meno della potenza stessa!
Tutti i cristiani, invece di fare affidamento sulle proprie capacità, energie, sui propri sforzi o sul proprio talento, dovrebbero rivolgersi al Signore per servirlo essere capace, abile, per servirlo in modo efficace, per essere forti! (dunatos).
Oltre a Paolo, ci sono stati cristiani che erano deboli fisicamente, ma che hanno servito il Signore potentemente!
Giovanni Calvino predicava cinque volte alla settimana, scrisse “L’istituzione della religione cristiana” e un commentario di tutti i libri del Nuovo Testamento tranne l'Apocalisse in una casa con otto figli, mentre per tutto il tempo fu tormentato da attacchi di pleurite e nei suoi ultimi anni visse con la tubercolosi.
Era tormentato da calcoli biliari, calcoli renali, emorroidi e artrite.
Così anche C. H. Spurgeon che il Signore usò potentemente per la conversione di migliaia di persone, non ebbe una buona salute, infatti soffriva terribilmente di gotta per diversi mesi all'anno e sua moglie, Susannah, era un'invalida costretta a rimanere a casa per la maggior parte del loro matrimonio.
Nel 1958 John Stott guidava un'iniziativa di sensibilizzazione universitaria a Sydney, in Australia. Ricevette la notizia della morte di suo padre il giorno prima dell'incontro finale e allo stesso tempo stava cominciando a perdere la voce. Egli descrive l’ultimo giorno così: “A poche ore dall’incontro finale del ministero era già pomeriggio inoltrato, quindi non sentivo di potermi tirar indietro in quel momento. Sono andato nella sala grande e ho chiesto ad alcuni studenti di riunirsi intorno a me. Ho chiesto a uno di loro di leggere… ‘La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza‘ (2 Corinzi 12:8–9). Uno studente ha letto questi versetti e poi ho chiesto loro di imporre le mani su di me e… pregare affinché quei versetti potessero essere veri nella mia esperienza.
Quando arrivò il momento di tenere il mio discorso, predicai sulle [vie larghe e strette da Matteo 7]. Dovevo avvicinarmi a circa un centimetro dal microfono e gracchiavo il Vangelo come un corvo. Non potevo esercitare la mia personalità. Non potevo muovermi. Non potevo usare alcuna inflessione nella mia voce. Gracchiavo il Vangelo in tono monotono. Poi, quando è arrivato il momento di dare l'invito, c'è stata una risposta immediata, più grande di qualsiasi altro incontro durante la missione, mentre gli studenti si avvicinavano in massa”.
Riflettendo sull'impatto di quell'esperienza, John Stott riferisce: "Sono tornato in Australia circa dieci volte dal 1958, e in ogni occasione qualcuno è venuto da me e mi ha detto: 'Ricordi quell'ultimo incontro all'università nella sala grande?’ ‘Mi ricordo benissimo’ rispondevo. 'Ebbene mi sono convertito quella notte', dicevano.
John Stott conclude: “Lo Spirito Santo prende le nostre parole umane, pronunciate con grande debolezza e fragilità, e le porta a casa con potenza alla mente, al cuore, alla coscienza e alla volontà degli ascoltatori in modo tale che vedano e credano”.
Quando siamo deboli siamo forti!
CONCLUSIONE
Un vero cristiano, o cristiana non perde mai nulla con la sofferenza per grazia del Signore!
Anzi ci guadagna, infatti nella debolezza sperimenta la grazia e la potenza del Cristo risorto!
Pertanto se siamo veri cristiani, anche se è difficile, ma non impossibile per la grazia del Signore, accettiamo volentieri le prove che ci manda!
Il segreto della dell’efficacia della missione di Paolo lo troviamo in 1 Corinzi 12:7-10.
David Guzik scrive: “Pensa a quest'uomo, Paolo. Era un uomo debole, o forte? L'uomo che viaggiò per il mondo antico diffondendo il Vangelo di Gesù nonostante le persecuzioni più feroci, che sopportò naufragi e prigionia, che predicò ai re e agli schiavi, che fondò chiese forti e addestrò i loro capi, non era un uomo debole. Alla luce della sua vita e dei suoi successi, diremmo che Paolo era un uomo molto forte. Ma era forte solo perché conosceva le sue debolezze e guardava fuori di sé per trovare la forza della grazia di Dio. Se vogliamo una vita di tale forza, dobbiamo anche capire e ammettere la nostra debolezza e guardare solo a Dio per la grazia che ci rafforzerà per qualsiasi compito. Fu Paolo, pieno di grazia, a dire: ‘Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica’ (Filippesi 4:13)”.
Il Signore non ha bisogno dei nostri punti di forza da cui dipendere, Gesù Cristo è la nostra potenza!
Ma perché questa possa scorrere in noi, dobbiamo riconoscere la nostra debolezza e dipendenza da Gesù Cristo!
Questi erano i segni distintivi dell’apostolato di Paolo, fu solo per la grazia del Signore che egli ricevette l'incarico e lo portò a termine con efficacia.
Pertanto, come ci ricorda la Bibbia, dobbiamo mettere a morte il nostro “io”, affinché Gesù Cristo possa vivere in noi (Galati 2:20).