Ebrei 4:15: Il nostro Sommo Sacerdote nella passione
La traduzione Nuova riveduta 2020 dice: “Perché non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, ma ne abbiamo uno che in ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare”.Immaginate di trovarvi in una sala d’attesa di un ospedale. Entra un medico che vi dice: “So esattamente come ti senti". La vostra prima reazione potrebbe essere di irritazione. “Come puoi saperlo? Hai mai provato questo dolore?" Ma se poi scopriste che quel medico ha attraversato la stessa malattia, improvvisamente le sue parole assumerebbero un peso diverso. Un conto è la conoscenza teorica, un altro è l’esperienza vissuta che insieme alle sue competenze e bravura professionali ci sono di grande conforto.
Oggi, in questo Venerdì Santo ci troviamo ai piedi della croce, contempliamo il mistero toccante della nostra fede: il Figlio di Dio che soffre e muore.
Mentre meditiamo sulla Passione di Cristo, in Ebrei 4:15 troviamo un aspetto prezioso per comprenderne il significato più profondo.
Il Sommo Sacerdote era il mediatore principale tra Dio e il popolo.
Una volta all’anno, nel Giorno dell’Espiazione, entrava nel luogo Santissimo per offrire il sangue sacrificale per i peccati del popolo.
Nella lettera agli Ebrei, Gesù è presentato come il Sommo Sacerdote definitivo che supera tutti quelli precedenti perché il Suo sacrificio è stato fatto una volta per tutte, ed è eternamente efficace.
Questo versetto, che parla del nostro Sommo Sacerdote compassionevole, può sembrare a prima vista lontano dalle scene drammatiche del Golgota.
Eppure, proprio oggi, nel giorno in cui si commemora la crocifissione, queste parole assumono una risonanza particolare.
Sulla croce vediamo la massima espressione di un Dio che empatizza con le nostre debolezze.
Oggi esploreremo come la croce ci rivela il Sommo Sacerdote descritto in Ebrei 4:15, un Sommo Sacerdote che non solo conosce teoricamente le nostre sofferenze, ma le ha sperimentate fino all’estremo limite.
Prima di tutto vediamo:
I LA PARTECIPAZIONE DI CRISTO
Ebrei 4:15 ci parla implicitamente che Gesù aveva un corpo umano.
La Passione di Cristo non può essere compresa senza la partecipazione di Cristo alla condizione umana, cioè alla realtà dell’incarnazione.
Il nostro versetto ci ricorda che abbiamo un Sommo Sacerdote che può "simpatizzare con noi nelle nostre debolezze" proprio perché ha assunto la nostra natura umana.
A quei tempi molti concepivano la divinità come distante e impassibile.
L’idea che Dio potesse identificarsi con gli uomini nelle loro prove era rivoluzionaria.
Ma lo scrittore di Ebrei afferma che abbiamo un Dio che non è semplicemente “lontano”, ma che è stato qui con noi, capace di provare empatia per le nostre esperienze.
Gesù la Parola si è incarnato, cioè, ha preso pienamente la condizione umana, si è fatto carne umana (Giovanni 1:1-14) per salvare i peccatori (1 Timoteo 1:15) e liberarli dalla schiavitù del diavolo, e diventare un misericordioso e fedele sommo sacerdote.
Ebrei 2:14-17 ci rivela il motivo profondo dell'incarnazione: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli vi ha similmente partecipato, affinché, con la sua morte, distruggesse colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberasse tutti quelli che dal timore della morte erano per tutta la vita soggetti a schiavitù. Poiché, certo, egli non viene in aiuto ad angeli, ma viene in aiuto alla discendenza di Abraamo. Perciò egli doveva essere fatto in ogni cosa simile ai suoi fratelli, affinché diventasse un misericordioso e fedele sommo sacerdote nelle cose appartenenti a Dio, per compiere l'espiazione dei peccati del popolo”.
Questi versetti ci spiegano perché Gesù doveva diventare pienamente umano. Per essere un vero Sommo Sacerdote, Gesù doveva vivere come noi, sperimentare ciò che noi sperimentiamo: la fame, la stanchezza, le tentazioni, il dolore. Solo così poteva diventare un sommo sacerdote che capisce davvero cosa proviamo.
Nella partecipazione di Cristo vediamo:
A) La precarietà
L’incarnazione di Cristo non fu una semplice apparizione temporanea del divino nel mondo umano.
Il Figlio di Dio non si è immerso temporaneamente nella vasca dell'umanità, ma ha abbracciato completamente l'oceano della condizione umana, fino alle sue profondità più oscure per essere trafitto per le nostre trasgressioni (Isaia 53:5), per portare i nostri peccati nel Suo corpo sul legno della croce per condurci a Dio (1 Pietro 2:24; 3:18).
Questo è il primo e fondamentale significato del Venerdì Santo: Dio in Cristo è entrato pienamente nella nostra condizione umana, fino al punto di sperimentare la sofferenza più estrema che non meritava!
L’Autore della vita ha accettato volontariamente le limitazioni fisiche dell'esistenza umana.
Si è incatenato a un corpo che poteva essere spezzato, un corpo che poteva sentire i morsi della fame, i brividi del freddo, l'agonia della tortura.
Ha accettato di essere confinato in un recipiente di argilla fragile e temporaneo, soggetto alle stesse leggi inesorabili della mortalità che governano tutti noi.
Colui che esiste al di fuori del tempo ha accettato il più grande limite dell’esistenza umana: la morte.
Nel Getsemani, vediamo Gesù che prega in angoscia: “Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice” (Matteo 26:39).
L’angoscia di Gesù nel Getsemani (Matteo 26:36-38) non era una finzione, ma l’autentica esperienza di un uomo che affrontava la prospettiva della sofferenza e della morte.
Quando meditiamo sul Venerdì Santo, meditiamo sulla flagellazione, sulla corona di spine, sul peso della croce, ricordiamo che queste non erano sofferenze apparenti, ma reali.
In Cristo, Dio non ha solo osservato la sofferenza umana dall’esterno, l’ha vissuta dall'interno.
Questo è il miracolo e il mistero che celebriamo: il Creatore dell’universo ha voluto non solo salvarci, ma comprenderci pienamente attraverso l'esperienza diretta della nostra condizione umana.
B) La pienezza
L'incarnazione di Cristo non è stata solo l’assunzione di un corpo umano, ma l’esperienza completa della condizione umana in tutte le sue dimensioni: fisica, emotiva e relazionale.
(1) Gesù ha conosciuto pienamente le esperienze umane quotidiane
Ha provato stanchezza e fame dopo quaranta giorni nel deserto (Matteo 4:2).
Ha conosciuto la sete sulla croce (Giovanni 19:28).
Ha sperimentato la stanchezza dopo il viaggio (Giovanni 4:6).
Ha vissuto l’intensità delle tentazioni (Ebrei 4:15).
(2) Gesù ha sperimentato l’intero spettro delle emozioni umane
Ha pianto alla tomba di Lazzaro (Giovanni 11:35).
Si è rallegrato nello Spirito (Luca 10:21).
Ha provato compassione per le folle (Matteo 9:36).
Ha espresso indignazione di fronte all’ipocrisia (Marco 3:5).
(3) Gesù ha conosciuto anche le complessità delle relazioni umane L’amicizia profonda con Lazzaro, Maria e Marta (Giovanni 11:5).
L’intimità del discepolo amato che posava il capo sul suo petto (Giovanni 13:23).
Il dolore del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro (Giovanni 13:21-30,36-38).
L’abbandono da parte dei discepoli nell'ora della prova (Matteo 26:56).
Se oggi, Gesù alla destra di Dio, può capire le nostre sofferenze e tentazioni, è perché ha vissuto in prima persona queste esperienze.
Durante la Sua umiliazione terrena, ha sopportato sofferenze e prove che lo hanno reso capace di vera empatia.
Grazie a questo, Egli è in grado di sostenere la Sua chiesa, il Suo popolo del Nuovo Patto, nelle loro sofferenze e tentazioni!
Un credente visitò un uomo che stava morendo di cancro. Si sentiva impotente, incapace di trovare parole di conforto adeguate. Poi ha letto con lui il passo di Gesù che era angosciato nel Getsemani. I suoi occhi si illuminarono: “Vuoi dire che anche Gesù ha avuto paura della morte? Che anche lui ha conosciuto questa angoscia?” In quel momento, la sua visione di Cristo cambiò – non era più solo il Dio potente che avrebbe potuto guarirlo, ma il compagno che camminava con lui attraverso la valle dell’ombra della morte.
La Passione di Gesù sul Golgota, ci mostra che la Sua incarnazione non era un travestimento temporaneo.
Il Figlio di Dio non ha semplicemente indossato l’umanità come un vestito, l’ha incarnata pienamente, fino alle Sue conseguenze più estreme: la morte umiliante in croce! (cfr. per esempio Filippesi 2:7-8).
Consideriamo ora:
II LA PIETÀ PROFONDA
Gesù aveva una compassione significativa, come ci ricorda la frase: “Che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze”.
Questa frase acquista un significato particolare alla luce della Passione del Venerdì Santo.
Quando siamo turbati, o feriti, o scoraggiati, o fortemente tentati, vogliamo condividere i nostri sentimenti e bisogni con qualcuno che ci capisca.
Spesso non abbiamo il coraggio di aprirci perché crediamo che nessuno ci capisca veramente.
Ma il nostro Sommo Sacerdote, misericordioso e fedele Gesù ci comprende perfettamente!
Il filosofo danese Søren Kierkegaard rifletteva sulla lamentela di ogni persona sofferente: "Non c'è nessuno che mi capisca".
E osservava: "Questo è ciò che la vera compassione desidera: essere al posto del sofferente per dare conforto. Ma questo è ciò di cui la compassione umana è incapace; solo la compassione divina può farlo, e Dio è diventato un essere umano".
Gesù è in grado (possa - dunamenon) di simpatizzare con le nostre debolezze, perché si è fatto umano come noi.
Il verbo “simpatizzare” (sumpathēsai - aoristo attivo infinito) suggerisce un’azione deliberata e completa.
La parola “simpatizzare” (sumpathēsai -) ha diverse sfumature che possiamo suddividere in tre gruppi.
(1) La connessione intima
Ellingworth parlando di questa parola dice che era spesso usato per descrivere l’affetto familiare, specialmente tra genitori e figli.
Non si tratta quindi di una vaga simpatia, ma di una profonda connessione personale.
Gesù, come Sommo Sacerdote, non si limita a osservare le nostre debolezze dall’esterno, ma entra attivamente in comunione con noi e con esse.
Quindi questa parola indica un legame profondo, non una semplice vaga forma di simpatia.
Si tratta di una connessione intima e personale, un coinvolgimento emotivo affettivo autentico verso chi soffre che riflette un legame intimo.
Cristo non solo comprende intellettualmente le nostre difficoltà, ma le "senta" con noi in modo profondamente personale.
(2) Identificazione e condivisione attiva
Per lo studioso Douglas Moo, “simpatizzare” nel contesto di Ebrei 4, si riferisce a più a una reazione emotiva - a provare compassione per qualcuno - ma a un’identificazione attiva con le persone.
Gesù si è identificato con i peccatori, benché in Lui non c’era peccato, è entrato nell’esperienza con loro e ha sofferto con loro e per loro morendo in croce, per salvarli dai peccati (Isaia 53:5-6; Marco 10:45; Giovanni 10:11; Romani 5:8; 1 Corinzi 15:3; 2 Corinzi 5:21; 1 Pietro 2:24; 3:18).
Questa parola indica “condividere la stessa sofferenza, o emozione”, “essere compassionevoli”, "essere in sintonia con", "comprendere appieno come ci si sente", o "sentire nel proprio cuore esattamente come si sente qualcun altro".
Emily Dickinson scrisse: “Che tu abbia sofferto e che io abbia sofferto, rende il nostro incontro più autentico”.
La croce è quell’incontro autentico tra la sofferenza di Dio e la nostra.
Questa parola si riferisce a una persona che è colpita dalla stessa sofferenza, dalle stesse impressioni, dalle stesse emozioni di un’altra, o che attraversa le stesse prove, e infine “simpatizza” con quest’altra persona che si trova in qualche tipo di difficoltà, prova compassione.
Questo ci porta alla terza sfumatura:
(3) Azione compassionevole
Westcott scriveva: "La simpatia di Cristo non è semplicemente la compassione di uno che guarda la sofferenza dall’esterno, il sentimento di uno che entra nella sofferenza e la fa sua".
La vera forza non si dimostra evitando la debolezza, ma abbracciandola per trasformarla.
La vera divinità non si manifesta rimanendo immuni dalla sofferenza umana, ma entrando in essa per redimerla.
La vera gloria non si rivela in un potere che schiaccia, ma in un amore che si lascia crocifiggere.
Dopo l’incarnazione, la croce, la passione di Cristo, è l’espressione più intensa ed evidente dell’empatia divina.
Non è solo una compassione che guarda, ma che agisce, il sentimento di chi entra nella sofferenza e la fa propria, e agisce per soccorrere, porta a un’assistenza attiva.
Il testo ci dice “con noi nelle nostre debolezze”, questo si riferisce che Gesù ha veramente condiviso le nostre debolezze in tutte le Sue forme, e quindi ci comprende quello che viviamo come esseri umani.
“Debolezze” (astheneiais) si riferisce a tutte le limitazioni, fragilità naturali dell’umanità, l’intera gamma di vulnerabilità umane.
La consolazione che deriva dalla pietà di Cristo si manifesta in tre modi:
Abbiamo:
A) La conoscenza completa
Nel suo capolavoro “La peste”, Albert Camus descrive l’agonia di un bambino innocente che muore tra atroci sofferenze. Il personaggio del medico, di fronte a questa ingiustizia, si ribella contro un Dio che permetterebbe una tale sofferenza.
Ma la croce ci mostra un Dio che non è rimasto immune dalla sofferenza che permette – l’ha sperimentata Lui Stesso.
Cristo ha conosciuto ogni forma di debolezza umana: fisica, emotiva e spirituale.
Ha sperimentato il dolore fisico estremo con la flagellazione, la corona di spine, la sete e la crocifissione.
E ancora, l’angoscia nel Getsemani, l’abbandono dei discepoli (Matteo 26:56), il tradimento di Giuda (Matteo 26:14-16, 47-50), il rinnegamento di Pietro (Luca 22:61-62), il disprezzo e lo scherno quando era crocifisso (Matteo 27:39-44),
ha sperimentato perfino il dolore del rifiuto e dell’abbandono del Padre (Matteo 27:46), mentre soffriva per la salvezza dell’umanità.
Non esiste abisso di disperazione umana così profondo che Cristo non vi sia già sceso.
Non esiste grido d’angoscia così straziante che non abbia già risuonato nelle Sue labbra.
Non esiste desolazione così totale che non abbia già abitato il Suo cuore.
E ancora la consolazione che deriva:
B) Dalla costanza della pietà
In questo giorno di Venerdì Santo, è importante ricordare non solo la sofferenza fisica di Gesù, ma anche la profondità del Suo amore compassionevole che continua ancora oggi.
Questa compassione non è stato solo un sentimento momentaneo, ma un’attitudine costante del nostro Sommo Sacerdote.
Anche ora, glorificato alla destra di Dio che intercede in favore gli eletti(cfr. per esempio Romani 8:33-34; 1 Timoteo 2:5; Ebrei 5:1, 9:12,24).
Il fatto che Gesù sia stato esaltato come Sommo Sacerdote potrebbe far pensare che Egli sia molto lontano dalla nostra esperienza umana in questo mondo ostile.
Ma la resurrezione e l’ascensione di Gesù non hanno fatto alcuna differenza per la Sua umanità.
Abbiamo in cielo un Sommo Sacerdote con una capacità ineguagliabile di entrare in empatia con noi in tutte le nostre debolezze.
Come osserva Philip Edgcumbe Hughes: “Per quanto trascendentalmente esaltato sia, sarebbe del tutto sbagliato immaginare che il nostro grande sommo sacerdote sia lontano dalle realtà della nostra esperienza umana. Il suo coinvolgimento con noi è garantito, come implica il versetto precedente, dal fatto che il Signore glorificato è ancora Gesù, il Figlio incarnato: la sua identificazione con noi non è cessata perché è passato nel santuario celeste”.
Infine:
C) La consolazione continua
Il doppio negativo “non”: “Non abbiamo” e “non possa”, esprime un’idea positiva: “Si abbiamo un sommo Sacerdote che è in grado di simpatizzare con noi nelle nostre debolezze”.
Questa consapevolezza ci porta consolazione nelle nostre debolezze!
La Passione di Cristo ci mostra che la Sua simpatia, non è teorica, o distante, come uomo è nata dalla Sua esperienza diretta su questa e ci consola ancora oggi e per sempre.
Per noi, nel Venerdì Santo, dovremmo ricordare che, quando gridiamo a Dio nel nostro dolore, ci rivolgiamo a uno che lo conosce bene, perché lo ha sperimentato.
Non siamo salvati da qualcuno che si è fermato alla periferia del dolore umano, ma da UNO che è sceso nel suo epicentro.
Non siamo redenti da qualcuno che ha osservato la nostra condizione da lontano, ma da UNO che l’ha vissuta dall’interno.
Non siamo liberati da un sommo sacerdote che è rimasto immacolato evitando la battaglia, ma da UNO che è entrato nella mischia e ne è uscito vincitore.
Nel Venerdì Santo, meditiamo su questa verità paradossale: la Passione, che apparentemente rappresenta la sconfitta di Cristo, è in realtà il momento del Suo più grande trionfo, questa è una consolazione continua per noi!
Nel Venerdì Santo, vediamo la sofferenza nella sua forma più cruda, ma sappiamo che la domenica di Pasqua è all’orizzonte.
Forse oggi stai attraversando il tuo personale Venerdì Santo. Forse ti trovi in un periodo di buio, di lotta, di apparente assenza di Dio.
Ricorda che la storia non finisce qui! La croce non è l’ultimo capitolo.
Dobbiamo avere sempre la speranza di “una domenica di resurrezione”, nel senso che Dio può cambiare le nostre brutte circostanze e se non lo farà, aspettiamo la resurrezione letterale dopo la morte (cfr. per esempio 1 Corinzi 15; 1 Tessalonicesi 4:13-18)
Questa è una grande consolazione!
Infine, vediamo:
III LA PROVA DI CRISTO
“Ma ne abbiamo uno che in ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare”.
L’autore della lettera agli Ebrei, specifica che il nostro Sommo Sacerdote, Gesù è stato tentato, ma non ha peccato.
Il "ma" (de - avversativo) introduce qui un contrasto fondamentale; non è una semplice congiunzione, ma segna una svolta decisiva nel pensiero, ci presenta Uno che ha vissuto pienamente la condizione umana.
R.T. France osserva acutamente: “C’è una grande differenza tra una consapevolezza onnisciente, ma distaccata di ciò che gli esseri umani affrontano e un’esperienza personale della potenza della tentazione. Solo Gesù può ‘empatizzare’ con noi in questo modo”.
Il versetto ci dice che Gesù è stato tentato (pepeirasmenon - perfetto medio participio), il verbo suggerisce che le tentazioni non erano sporadiche, isolate, ma durature, in altre parole la tentazione era un’esperienza prolungata che ha coperto tutta la Sua vita terrena.
La parola “tentazione” (peirázō) può significare sia “mettere alla prova”, sia “di indurre al peccato”.
Spesso la stessa circostanza può essere contemporaneamente una prova divina per rafforzare la nostra fede e una tentazione che potrebbe indurci al peccato. La differenza sta nell’origine dell’intento - Dio prova per fortificare, il diavolo tenta per far cadere - e nella nostra risposta.
Prima di tutto vediamo:
A) La tentazione tangibile
Qui è scritto: “In ogni cosa come noi” (kata panta kath’ homoiotēta), indica la realtà dell’umanità e l’estensione dell’esperienza umana di Gesù.
Il nostro Sommo Sacerdote è stato tentato in ogni cosa, come noi, nello stesso modo in cui lo siamo noi.
La Sua esperienza delle tentazioni corrispondeva in tutto e per tutto alla nostra. Questo significa che ha la capacità di identificarsi pienamente con la nostra esperienza umana.
La simpatia, o l’empatia di Gesù, il Sommo Sacerdote, è significativa ed efficace perché Egli ha sperimentato la portata e l’entità delle tentazioni che affrontiamo.
La tentazione è neutra: essere tentati non indica né virtù né peccaminosità, diventa peccato quando cediamo.
Ma mentre le nostre tentazioni, molte volte sono accompagnate e spesso sfociano nel peccato, per Gesù non è stato così! Gesù non peccò mai!
Thomas R. Schreiner parlando di Gesù scrive: “Egli comprende ogni tentazione che affrontiamo avendo sperimentato qualcosa di simile. Tuttavia, non si è mai arreso mai al potere del peccato. Ha condiviso le nostre debolezze e fragilità, ma non si è mai arreso al peccato, nemmeno una volta. Ha sempre obbedito alla volontà del Padre suo”.
Nella Passione, vediamo Cristo come un sommozzatore che si spinge nelle profondità marine dove nessuno è mai arrivato prima, affrontando pressioni che nessuno ha mai sopportato, eppure riemergendo vittorioso.
Ma questo non significa che per Gesù sia stato facile resistere alle tentazioni!
Fu vittorioso, ma non senza che la tentazione fosse intensa, dolorosa e angosciante.
La Sua natura immacolata aumentava la Sua sensibilità al peccato, rendendolo più consapevole della gravità della tentazione.
Le nostre menti e volontà, al contrario, sono spesso intorpidite a causa dei frequenti fallimenti.
John Albert Bengel diceva: “La mente del Salvatore percepiva le forme di tentazione molto più acutamente di noi che siamo deboli".
La Sua assenza di peccato significava che le tentazioni gli arrivavano con un’intensità molto più grande di quella che conosciamo noi.
Contrariamente a quanto pensiamo, la Sua divinità ha reso le Sue tentazioni incommensurabilmente più difficili da sopportare.
C. S. Lewis scrisse: “È diffusa l'idea sciocca che le persone buone non sappiano cosa significhi la tentazione. Questa è una bugia evidente. Solo coloro che cercano di resistere alla tentazione sanno quanto sia forte. Dopotutto, si scopre la forza dell’esercito tedesco combattendo contro di esso, non cedendo. Si scopre la forza di un vento cercando di camminarci contro, non sdraiandosi. Un uomo che cede alla tentazione dopo cinque minuti semplicemente non sa come sarebbe stato un’ora dopo. Ecco perché le persone cattive, in un certo senso, sanno ben poco della malvagità. Hanno vissuto una vita protetta cedendo sempre. Non scopriamo mai la forza dell’impulso malvagio dentro di noi finché non cerchiamo di combatterlo: e Cristo, poiché fu l’unico uomo che non cedette mai alla tentazione, è anche l’unico uomo che conosce appieno cosa significhi la tentazione – l’unico realista assoluto”.
Nella Passione, vediamo Cristo affrontare tentazioni che molti di noi conoscono bene:
B) Le tentazioni della croce
(1) La tentazione della tranquillità
Gesù, nella Sua umanità, anelava a evitare la sofferenza in croce.
La Sua obbedienza venne messa alla prova fino al limite estremo, eppure scelse di bere il calice che il Padre voleva che Lui bevesse.
Quante volte ci ritroviamo a implorare: "Signore, allontana da me questo calice"? Preghiamo per guarigioni, soluzioni immediate, vie di fuga dalle crisi. Non c'è nulla di sbagliato in queste preghiere.
Il problema sorge quando ci ribelliamo contro Dio perché non risponde come vorremmo.
Cristo ci rivela una verità fondamentale: a volte la via della fedeltà passa attraverso la sofferenza, non aggirando la valle oscura. La vera vittoria non sta nell'evitare il dolore, ma nel rimanere fedeli mentre l’attraversiamo.
(2) La tentazione della tristezza
In Matteo 26:38 è scritto che Gesù era oppresso da tristezza mortale. Questo mostra ancora la Sua piena umanità.
La Sua morte fu unica, e per questo motivo anche la Sua angoscia fu unica.
Gesù era angosciato non tanto dalla consapevolezza della Sua morte imminente, quanto dal fatto di dover morire della morte dovuta ai peccatori.
Sapeva che sarebbe stato abbandonato dal Padre, come sarà espresso sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Matteo 27:46).
Gesù ha sperimentato il senso di abbandono e desolazione spirituale.
Ha conosciuto la solitudine più profonda, quella di sentirsi abbandonato da Dio stesso.
L’intensità della Sua angoscia era tale che Luca 22:44 descrive che "il suo sudore divenne come grosse gocce di sangue che cadevano a terra".
Come scriveva eloquentemente il poeta John Donne: “Non mandare a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te”.
In quel momento sulla croce, la campana della desolazione suonava per Cristo, e attraverso di Lui, per tutta l’umanità.
Infine:
(3) La tentazione del trionfo
Cristo avrebbe potuto usare il Suo potere divino per evitare la croce, o per vendicarsi dei Suoi persecutori, ma scelse deliberatamente la via della debolezza e del sacrificio.
“Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo riedifichi, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi giù di croce!” (Matteo 27:40), avrebbe potuto farlo, ma non lo fece.
Nel “Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello”, quando Frodo offre l’Anello a Galadriel, la potente regina elfica? Lei, tentata, immagina cosa potrebbe fare con quel potere che c’è nell’anello: ‘Al posto di un Signore Oscuro mettereste una Regina!’ Ma poi rifiuta questa tentazione di dominio.
Cristo aveva infinitamente più potere a Sua disposizione, eppure scelse deliberatamente la via della debolezza e del sacrificio.
Invece di vendicarsi, Gesù prega il Padre di perdonarli (Luca 23:34).
Se ci fosse mai stata una tentazione in cui la natura umana avrebbe potuto giustificare il risentimento, sarebbe stata sulla croce.
Eppure, in quel momento, vediamo la massima espressione di misericordia di Gesù Cristo.
È come se Cristo avesse scalato la montagna più alta, affrontato le tempeste più violente, resistito ai venti più forti – non per mostrarci quanto fosse forte, ma per tracciare un sentiero che possiamo seguire.
Infine, vediamo:
C) Il trionfo per la nostra salvezza
Un’ultima nota importante, che riguarda questo Venerdì Santo, del trionfo di Cristo sulla tentazione e il peccato per la salvezza dei peccatori.
Come poteva Gesù salvarci se non avesse pienamente condiviso la condizione umana, compresa l'esperienza della tentazione, uscendone vittorioso?
L’assenza di peccato di Gesù, raggiunta con la Sua completa vittoria sulla tentazione, era un prerequisito essenziale per il compimento della nostra redenzione mediante il Suo sacrificio di Sé Stesso sulla croce.
I sacrifici per i peccati dovevano essere perfetti (cfr. per esempio Levitico 1:3; 22:19-21), e Gesù lo è stato (cfr. per esempio Ebrei 7:26-27; 1 Pietro 1:18-19).
Gesù, il Figlio di Dio incarnato, ha vissuto una vita umana completamente obbediente e quindi senza peccato.
Per mezzo di questa obbedienza egli è stato reso perfetto come nostro Salvatore e così è diventato “fonte di salvezza eterna” (Ebrei 2:17; 5:8-10).
Thomas D. Lea scrive: “Se Gesù avesse peccato cedendo alla tentazione, avrebbe avuto bisogno di un’espiazione. Non sarebbe stato migliore degli antichi sacerdoti che per primi dovettero offrire sacrifici per i propri peccati (Ebrei 7:27). Non avrebbe avuto i requisiti per garantirci la redenzione. Qualsiasi peccato nella vita di Gesù avrebbe reso il suo sacrificio inaccettabile (1 Pietro 1:19). Il nostro Salvatore senza peccato ci ha provveduto una redenzione perfetta. La sua esperienza vittoriosa con la tentazione ci offre compassione, incoraggiamento e vittoria nella nostra tentazione”.
In Ebrei 7:27 si afferma che Gesù non doveva offrire il sacrificio "prima per i Suoi peccati, e poi per i peccati del popolo come facevano i sacerdoti sotto l’antico Patto.
Come dice Philip Edgcumbe Hughes: “Ciò di cui noi, e loro, avevamo bisogno non era un altro perdente, ma un vincitore; non uno che condivide la nostra sconfitta, ma uno che è in grado di condurci alla vittoria; non un peccatore, ma un salvatore".
CONCLUSIONE
Come canta Leonard Cohen nella sua celebre “Hallelujah”: “C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce”.
La crepa dell’umanità di Cristo, la Sua vulnerabilità assunta volontariamente, è diventata il canale attraverso cui la luce della compassione divina è entrata nel mondo.
Richard Hughes scrive: "Il metodo per la simpatia senza pari di Dio è stato, ovviamente, l'incarnazione del suo Figlio nella carne umana... Sebbene fosse senza peccato, aveva un vero corpo umano, una mente e delle emozioni – con le loro debolezze inerenti”.
E continua con questa potente immagine: “Il suo strumento, per così dire, era lo stesso del nostro. È un fatto che, se hai due pianoforti nella stessa stanza e una nota viene suonata su uno, la stessa nota risponderà delicatamente sull’altro, anche se non toccato da un’altra mano. Questo si chiama ‘risonanza simpatica’. Lo strumento di Cristo era proprio come il nostro in ogni modo. E ascolta questo! Ha portato quello strumento, quel corpo, in Cielo con sé. È il suo corpo sacerdotale. E quando un accordo viene suonato nella debolezza del nostro strumento umano, risuona nel suo!"
Il fatto che Cristo abbia affrontato ogni tentazione senza peccato significa che il Suo sacrificio è perfetto e sufficiente.
La nostra salvezza è sicura perché Egli ha trionfato dove noi abbiamo fallito!
Nel Venerdì Santo, meditiamo su questa verità paradossale: la Passione, che apparentemente rappresenta la sconfitta di Cristo, è in realtà il momento del Suo più grande trionfo: Gesù moriva per salvare l’umanità!
C’è una scena potente nel film "Le ali della libertà" in cui Andy Dufresne mette un disco di Mozart e diffonde la musica d'opera in tutto il carcere? Per un momento, tutti i detenuti si fermano, alzano lo sguardo, e sperimentano un assaggio di bellezza e libertà.
La croce è quel momento in cui la musica del cielo viene diffusa nelle prigioni del nostro dolore, ricordandoci che c'è una realtà più grande della nostra sofferenza.
Oggi, ai piedi della croce, ricordiamo che qualunque dolore affrontiamo, qualunque tentazione ci assalga, qualunque debolezza ci affligga – niente di tutto ciò è estraneo al nostro Salvatore crocifisso.
Egli ha sperimentato tutto questo e più. E ciò che è più meraviglioso – lo ha fatto per amore.
Quando il mondo ti dice: "Nessuno può capirti", il Cristo sofferente risponde: "Io ti capisco".
Quando la disperazione sussurra: "Sei solo", Colui che è stato crocifisso proclama: "Io sono con te".
Quando il dolore grida: "Dov'è Dio?", il Venerdì Santo risponde: "Proprio qui, che sanguina con te".